
“Ho sempre pensato che prima o poi il conto sarebbe arrivato. L’ho detto e scritto in tempi non sospetti: servivano nuove strategie, serviva una comunicazione diversa, serviva un cambio di passo. Serviva umiltà. Ma come spesso accade in questo nostro mondo meraviglioso e autocompiaciuto, nessuno ha fatto un esame di coscienza. E adesso, la caduta è rovinosa”. Così l’editoriale di Elsa Mazzolini, direttrice da 40 anni del magazine (anche cartaceo) LA MADIA TRAVELFOOD, che mi pare quanto mai meritevole di segnalazione su questa rassegna stampa.
“I consumi calano, le vendite rallentano, i giovani si allontanano. Le cantine, silenti come certe vecchie zie che sorridono a denti stretti anche quando la casa brucia, evitano accuratamente qualsiasi forma di autocritica. Nessuno che dica “abbiamo sbagliato”. Nessuno che chieda scusa a un settore che sta franando sotto il peso della propria autoreferenzialità.
Eppure i segnali c’erano tutti. La prosopopea di molte aristocratiche aziende vinicole, la comunicazione obsoleta e inaccessibile per le nuove generazioni, i ricarichi al limite del grottesco nei ristoranti, che poi diventano il vero deterrente al consumo, altro che il nuovo Codice della Strada (che nuovo non è, ma l’alibi sì!).
Già, perché oggi si prende a pretesto la stretta sui controlli alcolemici – certo più rigorosi, certo più capillari – per giustificare il fatto che nei ristoranti la gente non ordina più vino. Ma diciamocelo: se un calice costa quanto un antipasto di fine dining, non serve il palloncino per spiegare perché si sceglie l’acqua. Il Codice della Strada diventa così il parafulmine perfetto per un malessere che viene da molto più lontano. In realtà, come si può educare al bere consapevole se si trasforma il vino in un lusso proibito?
Nel frattempo, il 2025 ci stringe in una morsa dove l’inflazione accelera, i dazi incombono, la burocrazia paralizza, e il sistema fiscale, anziché sostenere chi produce valore, sembra palesemente ostacolarlo. Ma nel settore del vino – che dovrebbe essere protetto come un patrimonio Unesco – si respira qualcosa di più subdolo: una certa ostilità culturale, un accanimento punitivo. E no, non esagero.
Chi difende il vino italiano? Nessuno. Le istituzioni tacciono, i politici latitano, le campagne promozionali languono tra slogan insipidi e finanziamenti a pioggia. Eppure il vino non è solo un prodotto agricolo: è paesaggio, è cultura stratificata nei secoli, è simpatetico linguaggio sociale, è bellezza liquida. Andrebbe tutelato come i siti archeologici, come i grandi maestri del Rinascimento. Invece? Lo si tratta come un fastidio da normare, da tassare, da zittire.
E mentre fuori dai nostri confini – prendete la Francia, maestra di strategia – si investono milioni nella promozione globale, da noi si litiga su dove mettere un QR code. Ogni cantina fa la sua battaglia, ogni consorzio si arrocca, ognun per sé. E il risultato? Frammentazione, confusione, immobilismo. Un coro di solisti senza visione, senza direzione.
Intanto però siamo qui a lamentarci perché i giovani si sono allontanati: ma per favore, siamo noi che non ci siamo mai degnati di andarli a cercare! Parliamo una lingua che non capiscono più, anzi, che non vogliono capire, perché li esclude, li giudica, li annoia. Continuiamo a sventolare premi, punteggi, tecnicismi e lessico da masterclass, aspettandoci entusiasmo da chi invece vorrebbe storie vere, sostenibilità green, identità, accessibilità.
Il punto non è solo la qualità del prodotto (che c’è, e va riconosciuta): il punto è che serve una rivoluzione nel racconto. Meno retorica, più verità. Meno celebrazione di sé, più ascolto. Meno élite, più comunità. Non si tratta di banalizzare, ma di respirare insieme l’aria del tempo, con una leggerezza nuova che non è superficialità: è capacità di entrare in relazione.
Se il vino italiano vuole ancora avere un futuro degno della sua storia, deve smettere di guardarsi allo specchio come Narciso e cominciare a costruire ponti. Verso il mondo reale, verso linguaggi meno stantii, verso chi non è “già dentro” ma potrebbe esserlo, se solo glielo permettessimo.
Il vino è nostro, ma non è solo per noi. È un patrimonio vivo, e come ogni organismo vivo ha bisogno di cura, nutrimento, evoluzione. Non c’è più tempo per le liturgie di sempre. O si cambia passo – e in fretta – o si resta inchiodati a un passato che non torna più.”